Analizzare il rapporto tra Dante e la dinastia
sveva significa confrontarsi con una tradizione di studi vasta, stratificata,
che comprende poi una particolare forma esegetica, nata in Italia agli albori
della fortuna della stessa Commedia,
cioè il modus delle lectures. Tipologia particolarmente attratta,
per una sua specificità, proprio ai personaggi che animano di volta in volta
questo o quel canto, confezionando un amplissimo orizzonte bibliografico. Superata
questa premessa, prima di entrare nel vivo della trattazione bisogna anche
specificare in modo un po’ perentorio che, vista la complessità della Commedia, il giudizio del Dante-autore
può sì coincidere o essere allusivamente compreso nello scambio di battute con
questa o quella maschera ma ciò non toglie che tale coincidenza potrebbe anche non
avere luogo. Recepito l’assunto, e portando finalmente il discorso sugli Svevi,
mi sembra solo apparente, per esempio, l’ipotetica contraddizione tra la lode
di Manfredi diretta ai suoi discendenti (definiti: «l’onor di Cicilia e
d’Aragona», Purg. III, 116) e la deminutio autoriale attribuita sempre a
«Iacomo e Federigo», entrambi rei di non possedere un «retaggio miglior» del
«membruto» padre Pietro III d’Aragona (Purg.
VII, 112 e 120). Nella valletta dei principi è Dante stesso a esprimersi e lo
fa per disegnare il quadro drammatico in cui versavano l’Italia e l’Europa del
tempo; nella terzina doppia di Par.
XIX, 130-135, dove si fa riferimento agli stessi personaggi, è l’Aquila degli
spiriti giusti a prendere la parola (per accusare i principi corrotti); e
ancora, tra gli scomunicati dell’Antipurgatorio, invece, era stato un progenitore,
umiliato e sconfitto, a rivendicare – orgogliosamente attraverso i suoi eredi
viventi – la vitalità e, quindi, il valore, la regalità e la nobiltà della
propria stirpe.
Birincil Dil | Türkçe |
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Bölüm | Makaleler |
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Yayımlanma Tarihi | 30 Aralık 2018 |
Yayımlandığı Sayı | Yıl 2018 Cilt: 1 Sayı: 4 |